1. Le misure ripristinatorie, cui l’ingiunzione a demolire deve essere ricondotta, quale che ne sia la
natura (che la giurisprudenza EDU ha riconosciuto come sostanzialmente penale laddove
sopraggiungano a distanza di parecchio tempo dalla commissione dell’abuso), si caratterizzano per
il fatto che attengono al bene e non al reo. Per tale ragione, esse si applicano anche a chi si trovi,
casualmente, in una data relazione giuridica con la cosa, in qualità di attuale proprietario
dell’immobile. Proprio in ciò si diversificano dalle sanzioni intrinsecamente afflittive, che si
applicano solo nei confronti dell’autore della violazione, in considerazione della loro funzione
general e special preventiva, richiedendo pertanto anche l’accertamento dell’elemento psicologico
nel relativo autore.
2. Per contro la sanzione ablatoria, proprio in ragione della sua incidenza su un diritto di rilievo
costituzionale, quale la proprietà, “recupera” tale momento soggettivo, in quanto presuppone che il
proprietario incolpevole sia stato messo a parte della situazione e non si sia adoperato per evitarla.
Proprio a tutela di tale momento di imputazione soggettiva dell’illecito il meccanismo
procedimentalizzato di tale fattispecie acquisitiva prevede una parentesi accertativa dell’eventuale
spontanea ottemperanza all’ordine di demolizione da parte dell’ingiunto, i cui esiti devono essergli
previamente comunicati. L’ordine di demolizione e l’atto di acquisizione al patrimonio comunale
costituiscono dunque inconfutabilmente due distinte sanzioni, che rappresentano «la reazione
dell’ordinamento al duplice illecito posto in essere da chi dapprima esegue un’opera abusiva e, poi,
non adempie all’obbligo di demolirla» (1).
3. La “minaccia” che in caso di inottemperanza all’ordine demolitorio «si procederà a norma di
legge», altro non è che un’avvertenza, che si palesa neutra sotto il profilo della legittimità dell’atto,
e tuttavia utile proprio nella richiamata ottica garantista e di correttezza dei rapporti tra cittadino e
pubblica amministrazione.
A maggior ragione, infatti, laddove il proprietario, che la norma (art. 31, comma 2 del d.P.R. 6
giugno 2001, n. 380) individua espressamente quale destinatario dell’ingiunzione a demolire
unitamente al responsabile dell’abuso, sia estraneo allo stesso, mediante informazione delle
conseguenze dell’inottemperanza, lo si mette da subito in condizione di attivarsi per scongiurarle.
Ridetto avvertimento, dunque, spesso dequotato a mera formula di stile che compare in tutti gli atti
sanzionatori di tale tipologia, finisce per costituire una sorta di trait d’union tra la natura reale
o propter rem della misura ripristinatoria e quella sanzionatoria (di secondo livello) dell’ablazione
della proprietà.
4. Né può ritenersi che l’avvenuta presentazione di istanza di sanatoria – peraltro riferita ad uno solo
dei manufatti abusivi oggetto di ingiunzione a demolire – infici la validità dell’atto sanzionatorio in
sé. Come la giurisprudenza, anche della Sezione, ha ormai definitivamente chiarito, infatti, essa non
ha un effetto caducante dell’ordinanza di ripristino dello stato dei luoghi, ma ne determina solo la
temporanea inefficacia e ineseguibilità fino al suo eventuale rigetto, a seguito del quale riprende a
decorrere il termine per l’esecuzione e, in caso d’inottemperanza, può essere disposta l’acquisizione
dell’opera abusiva senza necessità dell’adozione di una nuova ingiunzione o concessione di un
nuovo termine di 90 giorni. (2).
5. L’ingiunzione a demolire, cioè, «[…] per la sua natura vincolata e rigidamente ancorata al
ricorrere dei relativi presupposti in fatto e in diritto, non richiede motivazione in ordine alle ragioni
di pubblico interesse (diverse da quelle inerenti al ripristino della legittimità violata) che impongono
la rimozione dell’abuso. Il principio in questione non ammette deroghe neppure nell’ipotesi in cui
l’ingiunzione di demolizione intervenga a distanza di tempo dalla realizzazione dell’buso, il titolare
attuale non sia responsabile dell’abuso e il trasferimento non denoti intenti elusivi dell’onere di
ripristino» (3).
6. Sia la giurisprudenza amministrativa, che da quella di legittimità richiedono ormai pacificamente
per la sanatoria degli abusi edilizi la doppia conformità delle opere alla disciplina urbanistica vigente
sia al momento della realizzazione del manufatto, che a quello della presentazione della domanda di
permesso in sanatoria L’ orientamento ha peraltro da tempo trovato conferma nella decisione con
cui la Corte costituzionale (sent. 22-29 maggio 2013, n. 101), esaminando la compatibilità
costituzionale della legislazione adottata dalla Regione Toscana in materia di governo del territorio
e rischio sismico, ha affermato che il principio fondamentale della legislazione statale in materia di
provvedimento di sanatoria delle opere abusive ricavabile dall’art. 36 T.u.e., che esige il requisito
della doppia conformità, «risulta finalizzato a garantire l’assoluto rispetto della disciplina
urbanistica ed edilizia durante tutto l’arco temporale compreso tra la realizzazione dell’opera e la
presentazione dell’istanza volta ad ottenere l’accertamento di conformità». (4).
7. L’ordinamento non ammette infatti casi atipici di sanatoria, in quanto diversamente dal condono
essa «è stata deliberatamente circoscritta dal legislatore ai soli abusi “formali”, ossia dovuti alla
carenza del titolo abilitativo, rendendo così palese la ratio ispiratrice della previsione della
sanatoria in esame, ‘anche di natura preventiva e deterrente’, finalizzata a frenare l’abusivismo
edilizio, in modo da escludere letture ‘sostanzialiste’ della norma che consentano la possibilità di
regolarizzare opere in contrasto con la disciplina urbanistica ed edilizia vigente al momento della
loro realizzazione, ma con essa conformi solo al momento della presentazione dell’istanza per
l’accertamento di conformità».
8. In ossequio alla giurisprudenza della Corte costituzionale (sent. 29 maggio 2013, n. 101), l’art. 36
del d.P.R. 6 giugno 2001, n. 380 non ammette ipotesi di “sanatoria” condizionata alla effettuazione
di altri interventi (ad esempio di demolizione). Ciò vale a maggior ragione ove si pretenda di far
confluire gli impegni del privato in un accordo ai sensi dell’art. 11 della l. 7 agosto 1990, n. 241, che
comunque implica una “negoziazione” rimessa alla scelta discrezionale della p.a., estranea alla
natura del provvedimento.
L’art. 11 della l. n. 241 del 1990, è relativo ad un modulo decisionale consensuale comunque
soggetto al vincolo funzionale dell’interesse pubblico a “sottrarre” ambiti più o meno ampi alla
decisione autoritativa. Esso non può essere identificato con il risparmio del futuro e ipotetico
dispendio di tempo e risorse per l’eventuale demolizione in danno, ovvero per istruire ex novo la
pratica edilizia eventualmente (ri)presentata. L’ordinamento non ammette infatti casi atipici di
sanatoria, in quanto diversamente dal condono essa «è stata deliberatamente circoscritta dal
legislatore ai soli abusi “formali”, ossia dovuti alla carenza del titolo abilitativo, rendendo così palese
la ratio ispiratrice della previsione della sanatoria in esame, ‘anche di natura preventiva e deterrente’,
finalizzata a frenare l’abusivismo edilizio, in modo da escludere letture ‘sostanzialiste’ della norma
che consentano la possibilità di regolarizzare opere in contrasto con la disciplina urbanistica ed
edilizia vigente al momento della loro realizzazione, ma con essa conformi solo al momento della
presentazione dell’istanza per l’accertamento di conformità» (Corte cost., n. 101 del 2013) . Ed è
evidente che la necessità di “negoziare” l’adeguamento ovvero la sua realizzazione, altro non è che
uno strumento per legittimare una sanatoria condizionata, ovvero per far rivivere la c.d. “sanatoria
giurisprudenziale”, istituto di creazione pretoria da tempo abbandonato dalla giurisprudenza Sul
parziale superamento di tale regola “in caso di interventi realizzati in parziale difformità dal
permesso di costruire o dalla segnalazione certificata di inizio attività nelle ipotesi di cui all’articolo
34 ovvero in assenza o in difformità dalla segnalazione certificata di inizio attività nelle ipotesi di
cui all’articolo 37” si v. art. 36-bis, comma 2, del d.P.R. n. 380 del 2001, introdotto dall’art. 1, comma
1,lett. h) del d.l. n. 69 29 maggio 2024, n. 69, convertito con modificazioni dalla l. 14 luglio 2024,
n. 105.
9. Il concetto di “doppia conformità” richiesto ai fini della concessione della sanatoria ordinaria
presuppone una verifica di rispondenza al regime urbanistico vigente sia all’atto dell’effettuazione
dei lavori che della presentazione dell’istanza in senso “statico”. L’astratta assentibilità dell’opera
previa attivazione di uno specifico procedimento (nel caso di specie, presupponente l’intervento del
Consiglio comunale) non equivale a concreta rispondenza della stessa al regime edificatorio vigente
in una determinata zona. (2).
L’ipotetica ammissibilità di un intervento, ove realizzato ex novo, in ragione dell’esistenza di
apposita norma regolatoria che lo consente, a condizioni date, non equivale a conformità dello stesso
al regime urbanistico vigente, che non può essere desunto dal successivo esito di ulteriori
valutazioni. La nozione di “doppia conformità” richiesta dall’art. 36 del d.P.R. n. 380 del 2001, è
infatti, per così dire, a valenza staticoricognitiva, nel senso che presuppone una mera verifica formale
da parte degli uffici, in quanto solo formale e non sostanziale è la natura dell’illecito di riferimento.
Diversamente opinando, esso si tradurrebbe in una sorta di condono, anziché di sanatoria ordinaria,
consentendo cioè l’avallo postumo di interventi che sostanzialmente, non solo formalmente, sono in
contrasto con gli strumenti urbanistici vigenti.
Consiglio di Stato, Sezione Seconda, Sentenza 25 febbraio 2025, n. 1648.